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So di non sapere

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So di non sapere


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Era il voto di benvenuto che, all’inizio del primo anno del corso di Medicina e Chirurgia dell’allora Secondo Policlinico, ci dava il Prof Gaetano Salvatore, il nostro Preside. Un’ora di un certo divertimento, con una serie di informazioni che ci fecero raggelare.

Ad esempio, ci disse che eravamo più studenti di medicina a Napoli che in tutto il Nord America, Canada, USA e Messico. Di come una parte di noi sarebbe stata sottoimpiegata e disoccupata; tutto vero, negli anni ’80, fino a quando non si introdusse il famigerato ed impopolare numero chiuso.

Soprattutto, ci disse che, alla laurea, buona parte di quello che stavamo per imparare non sarebbe stato più vero. Lo quantificò, allora, al 50% ogni cinque anni, ma probabilmente, con l’accelerazione dell’Information Technology e l’avvento di Internet, questo tempo di dimezzamento si è accorciato.

Quindi, quello che crediamo di sapere, probabilmente, non è vero.

Se oggi facessi esattamente quello che facevo tre anni fa, probabilmente e chiaramente non avrei imparato nulla. È la maledizione della nostra professione, e non è abbastanza dimostrare, sulla carta, di aver maturato un certo numero di ore di partecipazione a congressi e simili per essere davvero all’avanguardia.

La maggior parte di noi studia moltissimo fino alla specializzazione. Poi, lavoriamo durissimo sempre, e, nonostante tutto, rimaniamo cristallizzati a quanto abbiamo imparato durante la specializzazione. Spesso, per quieto vivere, non mettiamo in discussione quello che si fa nella vita clinica di tutti i giorni. Il risultato è continuare a fare quello che, in altri Paesi, è stato dimostrato essere obsoleto 40 anni orsono.

Questo è uno dei massimi principi su cui ho costruito la mia pratica clinica e la mia carriera da ricercatore, manifestando un atteggiamento un po’ scettico nei confronti di quanto mi venisse proposto come routine e come management standard per una certa patologia.
Alcuni studi pubblicati di recente hanno rafforzato queste mie convinzioni.

Di seguito alcuni di questi.

L’uso smodato di antinfiammatori
Chi di noi non ha preso antinfiammatori come paziente e quale ortopedico non ne prescritto almeno qualcuno di questa classe infinita di farmaci?

Pare, però, che, alla ricerca di soluzioni veloci per il trattamento del dolore che i nostri pazienti manifestano, abbiamo dimenticato che ci siamo evoluti per guarire grazie alla risposta infiammatoria che il nostro corpo sviluppa quando esposto ad un trauma. In questo senso, l’infiammazione è la normale risposta alle lesioni. Quando i tessuti muscolo scheletrici sono danneggiati, i vasi sanguigni lo sono anch’essi e il sangue si riversa nei tessuti circostanti. Le cellule rilasciano una serie di fattori che reclutano cellule staminali ed altre cellule deputate a riparare il tessuto, innescando, così, il processo di guarigione. I farmaci antinfiammatori, anche quelli di ultima generazione, agiscono inibendo i mediatori dell’infiammazione, le prostaglandine. Quindi, quando li assumiamo, questo processo di guarigione viene efficacemente contrastato.

Tali farmaci hanno i benefici di cui dicevamo, ma vi sono sempre più studi sui loro effetti negativi. Ad esempio, uno dei farmaci più ‘gentili’ di questa classe, l’ibuprofene, è stato associato alla riduzione della produzione di testosterone negli uomini, causando una minore fertilità. Gli inibitori delle prostaglandine, e quindi i farmaci antinfiammatori, hanno probabilmente lo stesso effetto. Questo è un peccato perché il testosterone aiuta i muscoli a recuperare, e migliora la nostra sensazione di benessere.

Non vi è dubbio che in alcune malattie croniche come le artropatie infiammatorie la riduzione dell’infiammazione sia una parte importante della terapia, e quindi questi farmaci sono necessari e squisitamente indicati. Tuttavia, gli effetti collaterali possono, in alcuni casi, trascendere i benefici.

Crioterapia
Tutti abbiamo avuto una contusione e tutti utilizziamo ghiaccio dopo un intervento chirurgico per ridurre gonfiore e diminuire dolore. Non c’è dubbio: funziona egregiamente e contribuisce a ridurre la necessità di analgesici. Eppure, i tessuti, per guarire, hanno bisogno che il flusso sanguigno aumenti. Il ghiaccio, invece, lo riduce.

Allora, qual è il compromesso da raggiungere? Alternanza di caldo e freddo? Uno è migliore dell’altro? Semplicemente non lo sappiamo. Ancora.

Corticosteroidi
Questi farmaci sono i più potenti antinfiammatori, inibendo il metabolismo cellulare e la chemiotassi, ovvero la capacità delle cellule traumatizzate di reclutare nuove cellule nel sito di infiammazione e riparazione dei tessuti. Inducono danni a lungo termine sulla cartilagine articolare, interferiscono negativamente sul metabolismo dei tendini e legamenti, agendo da catabolizzanti ed inibendone la guarigione. Eppure, rimangono i farmaci più frequentemente utilizzati per le articolazioni doloranti.

Vitamina D Calcio e salute ossea 
Per decenni abbiamo raccomandato l’uso di integratori di calcio e vitamina D per prevenire le fratture dell’anca: tutti soffriamo di osteoporosi man mano che invecchiamo, anche se le donne perdono massa ossea più velocemente degli uomini. Tuttavia, una revisione sistematica degli studi clinici randomizzati su un gran numero di pazienti, più di 50.000, di almeno 50 anni non ha mostrato alcuna associazione significativa del trattamento con calcio e / o vitamina D rispetto al placebo, indipendentemente da dose, sesso, storia di fratture, assunzione di calcio con la dieta o concentrazione di vitamina D al basale.

Quindi, se alcune di queste terapie che sono state messe in atto da tempo, e per le quali si sono investiti miliardi, danno dei risultati al meglio dubbi, e possono persino arrecare danno, cosa si resta da fare?

La risposta viene non solo dalla pratica quotidiana della nostra arte medica, ma dalla ricerca scientifica. E la ricerca, spesso, genera più dubbi di quanti ne risolva. Ed è bene che sia così: se avessimo solo certezze, non potremmo progredire.

Alla fine, se davvero vogliamo andare avanti, dobbiamo dimenticare un po’ di quanto sappiamo, abbracciare le incertezze, formulare nuove ipotesi e, soprattutto, essere disposti a cambiare.

Pazzia è continuare a fare la stessa cosa, ed aspettarsi un risultato differente, come diceva Einstein un secolo fa.

Il Prof. Nicola Maffulli sarà a disposizione per rispondere ai quesiti che gli arriveranno alla mail ortopedicorisponde@expartibus.it.

Autore Nicola Maffulli

L'autore più citato in ortopedia, il Professor Nicola Maffulli, è superspecializzato in traumatologia sportiva. Ha pubblicato più di 1.200 articoli su riviste scientifiche e 12 libri e ha descritto oltre 40 nuove tecniche chirurgiche in chirurgia del ginocchio, piede e caviglia e chirurgia sportiva, molte delle quali sono state ampiamente adottate in tutto il mondo. Atleta in gioventù, il suo sogno di andare alle Olimpiadi è stato realizzato a Londra: ha guidato un gruppo di sette chirurghi ortopedici per le Olimpiadi e le Paralimpiadi di Londra, ed ha poi organizzato i servizi medici delle Universiadi 2019. Giornalista pubblicista, risponde ai lettori alla mail ortopedicorisponde@expartibus.it su problematiche di natura ortopedica e traumatologica.