Home Rubriche Lo sguardo altrove Fate presto

Fate presto

1516
Terremoto in Irpinia


Download PDF

Qui non c’entra la politica, qui c’entra la solidarietà umana, tutte le italiane e gli italiani devono mobilitarsi per andare in aiuto a questi fratelli colpiti da questa nuova sciagura. Perché, credetemi, il modo migliore di ricordare i morti è quello di pensare ai vivi.
Sandro Pertini – Discorso alla nazione dopo il terremoto in Irpinia del 1980

Il 23 novembre 1980 la terra tremò. Sono trascorsi quarant’anni da quella sera. Alle 19:34, una scossa del decimo grado della scala Mercalli, con un ipocentro di circa 10 km di profondità, devastò una ampia zona che andava dal centro Campania alla parte centro-settentrionale della Basilicata.

Un’area grande quanto il Belgio avvertì un boato che inghiottì persone e palazzi, strade e, soprattutto, vite intere. Famiglie spezzate, paesi divelti dalla faccia della Terra. Un suono orrido, brutale, fragoroso irruppe dal basso e vomitò una ferocia inaudita. Fu subito definito il più disastroso terremoto della recente storia italiana. E quei novanta secondi scrissero una nuova pagina dolorosa e buia soprattutto per il Mezzogiorno d’Italia.

Piccoli borghi vennero alla ribalta dell’opinione pubblica nel peggiore dei modi possibili: lo strazio di Sant’Angelo dei Lombardi, il lutto di Conza della Campania divennero in pochi giorni conosciuti a tutti. Due centri dello stesso cratere, due centri che improvvisamente divennero presepi annientati.

Le tre province maggiormente sinistrate furono quelle di Avellino, 103 comuni, Salerno, 66, e Potenza, 45. Trentasei comuni della fascia epicentrale ebbero circa 20.000 alloggi distrutti o irrecuperabili. In 244 comuni, non epicentrali, delle province di Avellino, Benevento, Caserta, Matera, Foggia, Napoli, Potenza e Salerno, altri 50.000 alloggi subirono danni da gravissimi a medio – gravi. Ulteriori 30.000 alloggi lo furono in maniera lieve.

Un dio folle fulminò con la sua collera questi piccoli paesi, l’Irpinia venne smembrata, Napoli avvertì tutte le fratture di una edilizia immonda e, mai come in quel momento, si capì quanto male aveva provocato la speculazione edilizia degli anni Sessanta. Si guardò al Vesuvio in attesa di una nuova Pompei, pochi pensarono al mare e temettero uno tsunami.

Il male si era annidato sotto i piedi e aveva scelto di prorompere con un rutto violento che abbatté quello che era precario e costruito senza rispetto delle più elementari regole e norme. Quasi tremila morti, duecentottantamila sfollati, quasi novemila feriti.

Un’apocalisse divise il cielo dagli uomini. Ogni uomo sentì in cuor suo il profondo dolore di una vita provvisoria. I lampadari danzavano al suono di un valzer macabro, le crepe sembravano rughe di un maleficio, le strade aprirono bocche spaventose, le luci si spensero, la gente fuggì dimenticandosi, le sirene sembravano raccontare un film che mai avremmo voluto vedere, figurati viverlo da protagonisti.

Molti di quei bambini che avevano sei sette anni oggi sono ultraquarantenni che portano anche negli occhi quello sgomento e, segnati, quando ancora la trema balla rivolgono lo sguardo al soffitto e stringono i loro figli con lo stesso terrore con cui all’epoca furono a loro volta stretti. Molti di queste fragili cittadine non si sono più riprese e hanno preferito non ricostruire.

La frazione Sella del piccolo comune irpino fu indicata come epicentro della scossa e da quel momento il paese è rimasto disabitato, chiuso in un parco, immobile a quegli istanti con le case demolite e il paesaggio deformato.
Il paese è stato successivamente ricostruito a valle. Vagando per il nostro Sud le troviamo spettrali cattedrali di un mondo dimenticato o, forse, che si è volutamente dimenticato. Quasi come se avessero abdicato a questa vita, preferendo l’oblio al ricordo di un orologio fermo ad un’ora oramai nefasta.

Quando muore un bambino un angelo piange, ma quando ne muoiano tanti è Dio a negarsi, Dio a non avere più la forza di guardarsi nello specchio.

Quella fu una sera fresca non fredda, quel freddo che ti assedia. Eppure, sembrò calda a tutti i napoletani. Una sera fuori stagione, atipica ma fu una suggestione. Un inganno della memoria che volle prendersi gioco anche della rievocazione che quella notte tragica e le ore che la precedettero divennero dopo.

Io la ricordo con gli occhi sgranati, occhi che lentamente si fanno più piccoli fino a diventare strette fessure dove anche le lacrime farebbero fatica ad uscire. La prima scossa fece vibrare il pavimento. Napoli è cava e sembrò a tutti un movimento deciso e sussultorio del suolo inatteso ma forse caricato dai continui passaggi di autobus e camion.

Via Monteoliveto è centrale, è il cuore di una città. In quei giorni addomesticati dalla normalità, viveva una quotidianità vivace ma regolare. Il secondo movimento tellurico fu più deciso e fu ondulatorio. E lo ricordo senza paura, come un crescendo emotivo che spegne i suoni e ti fa rivedere solo le immagini. Non confuse né sbiadite. Limpidamente vere e limpidamente feroci. Quella sera io ero turbato, piangevo senza motivo.

Avvertivo in me una sensazione di inquietudine che non voglio etichettare come premonitrice né straordinaria. Aveva una sua connotazione che ancora oggi che sono passati quarant’anni non ho ancora compreso del tutto. Mi nascosi sotto il tavolo a sentire i discorsi dei miei genitori con i miei zii materni. Avevo, credo, una macchinina che faceva girare e capovolgere sotto le assi di quel legno scuro. Eccola la seconda scossa, più decisa. Come se una forza oscura spingesse con agitazione e viscerale odio tutto quello che incontrasse per il suo cammino.

Come se volesse spingere giù in un abisso quel pezzo di terra prescelta per farla divenire almeno per un giorno la capitale di tutto il mondo, la capitale del dolore. Vedo la scena e copro le orecchie. Il suono deve essere azzerato perché il film abbia una visione asciutta. Il tavolo sembrò capovolgersi su di me, mio padre mi afferrò per le mani. E io mi ritrovai nelle braccia di mia mamma stretto in una asfissia di paura e di protezione.

La corsa per le scale: un palazzo di cinque piani con i gradini di marmo alti almeno venti centimetri. Abitavamo al quinto piano e quelle scale strette ed infinite furono una veloce ma infida scesa dagli inferi verso una luce insperata che, comunque, non ci attendeva. La più vera contraddizione che ho vissuto.

Mio padre era davanti a tutti ma mia madre quella sera fu il mio tutto.
La sua mano sulla mia testa, quella donna aveva la forza della disperazione e con quella tenacia scese con me in braccio tutti i piani mentre i calcinacci ci piovevano addosso e la terra sbuffava ancora terrore.

Giungemmo in pochi secondi al primo piano dove un condomino stringeva a sé figli e moglie come una tenaglia sotto l’arco della sua porta di casa.

Prese il braccio di mia madre per ripararla e accendo ora l’audio, perché la memoria vuole anche la voce:

Venite ccà, che facite, nu’ scennite!

Parole disordinate di una lingua immortale, la profezia felicemente non avveratasi di un uomo che io ricordo alto e robusto. Il rumore, ora lo sento. Il rimbombo di quella sera. Un tamburo assordante, il gracchiare morbido ma costante dei muri che si aprono, il tonfo della pietra che si abbatte, il nero delle scale che diviene musica avvilente. Le urla, i clacson, i passi, la corsa e i pianti.

Napoli sa piangere. E ricordo ancora quella donna che con una gomitata nello stomaco di quel povero uomo, si libera e corre verso l’uscita. Ignorando il bene di quel consiglio e ammutolendo ogni ragionevole ammonimento. Solo dopo con gli anni ho capito che quel gesto di sconforto e di paura poteva rivelarsi tragico e spiacevolmente sciocco.

In quel momento, però, e ancora per altro tempo dopo, mi parve il più giusto e il più eroico. Forse ancora oggi lo è intimamente.

Lassateme stà… lieveme sti mane ‘a cuolle.

Eccola la sua voce che assale e respinge quell’aiuto. Vuole portarmi via dal male, nascondermi dagli occhi del diavolo e chiedere ad un Dio che si era girato dall’altra parte di salvarmi. Io ultimo di cinque figli. La corsa è finita.

Siamo fuori all’aperto. Gli occhi si aprono ancora un poco ed entra una luce fioca. Sono gli abbaglianti delle auto impazzite, la luce gialla dei lampioni che continuano a dondolare sui fili che sembrano le uniche cose che tengono in piedi quei palazzi.

C’è polvere, c’è fumo, c’è il delirio della vulnerabilità. Il suono è forte ora e cerca di armonizzarsi con le immagini, seguirle per dare loro una lucida verità. I volti delle persone sono ombre che sfuggono, gli occhi quelli no.

Tutti avevano dentro una strana luce, pareva un incendio che mai sarebbe stato destinato a non spegnersi. Era l’anima che era salita a vedere l’orrore per imparare a non dimenticare più. La notte a piazza Municipio, un conclave di assediate e impaurite cavie umane. Le ore che trascorrevano lente, il ritrovarsi commuovente di tutta la famiglia in un abbraccio di pietà infinita.

In un’auto con coperte scese dal cielo e poi le lacrime, i primi cadaveri, le ambulanze, la dolce carezza di un cugino che nemmeno più ricordo il nome ora. Ora suono e immagini sono tutt’uno. Si addolcisce la notte, viene il giorno e il ritorno alla vita straziata ma, almeno per me, poteva ancora continuare.

Il terremoto del 1980 porta il nome di uomini come Giuseppe Zamberletti, simbolo della ricostruzione, Commissario straordinario e poi Ministro. Inventore della Protezione Civile. Il nome di Sandro Pertini, Presidente della Repubblica, che quando giunse nei luoghi sventrati pianse come un bambino, uno che aveva sfidato la morte e il Nazismo.

Porta il nome di tutti i bambini deceduti sotto le macerie, il nome delle famiglie annientate. Poi ha anche il nome di abusivismo, corruzione, camorra, Stato latitante, containers ovvero i dormitori prefabbricati di amianto e alluminio, degli sfollati, dei palazzi con i pali di legno a sorreggerli.

Lo schifo e l’orrore dell’animo umano che nemmeno di fronte alla morte e al dolore riesce a cambiare. E in questi giorni la memoria si imbatte in quel bellissimo titolo che ‘Il Mattino’ diretto dall’allora direttore Roberto Ciuni, ideato dal giornalista Carlo Franco scomparso pochi giorni fa.

‘Fate presto’. Fu il titolo che rese celebre il suo servizio sui paesi del cratere, e servì per denunciare i ritardi dei soccorsi. Una prima pagina trasformata in opera d’arte da Andy Warhol e inserita da Lucio Amelio nella collezione Terrae motus.

In una riunione Ciuni ascoltò i resoconti di tutti gli inviati e chiese se avessero suggerimenti per il titolo.

Profetizzò Pietro Gargano:

Bisogna fare presto altrimenti là sotto non troveranno vivo nessuno e scoppieranno epidemie.

Il direttore allora mostrò il taccuino con su scritto «Fate presto». Il titolo fu completato con Gargano, e questo era il catenaccio: «Per salvare chi è ancora vivo, per aiutare chi non ha più nulla».

Fate presto anche oggi: la pandemia dilaga e uccide. La gente è stanca ed esasperata. I bambini sono fantasmi alla finestra. I poveri sono sempre più poveri. Fate presto ma lavorate con intelligenza, con amore, con impegno e con serietà.

Perché da questo oggi vale anche il domani di noi tutti. Fate presto voi scienziati, lasciate da parte screzi e onorificenze. Fate presto voi che potete, fatelo perché questa vita abbia ancora un senso. Fate presto, perché questa volta potrebbero non bastare le braccia di una mamma.

Print Friendly, PDF & Email

Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.