Intervista a Gianluca Ferrato, one man show della pièce di Massimo Sgorbani
Debutterà martedì 3 marzo, ore 21:15, presso il Piccolo Bellini di Napoli, via Conte di Ruvo, 14, dove sarà in scena fino a domenica 8 marzo, lo spettacolo ‘Truman Capote – Questa cosa chiamata amore’ di Massimo Sgorbani, con Gianluca Ferrato, impianto e regia di Emanuele Gamba, scene Massimo Troncanetti, costumi Elena Bianchini, produzione Florian Metateatro – Centro di Produzione Teatrale in collaborazione con Teatro della Toscana.
Incentrato sulla figura del grande intellettuale statunitense, celeberrimo autore di romanzi indimenticabili come ‘A sangue freddo’ e ‘Colazione da Tiffany’, da cui sono state tratte fortunatissime versioni cinematografiche, accompagnato dalle canzoni di Cole Porter e Ira Gershwin, racconta, con dissacrante lucidità ed insolente cinismo, la società americana degli anni ’50 e ’60 del Novecento.
Una narrazione che scava tra luci ed ombre di un genio anticonformista con un grande senso di libertà che afferma verità scomode e fa della potenza dell’amore e della vacuità della vita gli obiettivi della sua indagine sociologico – letteraria.
Ci rivolgiamo al protagonista, Gianluca Ferrato, celebre doppiatore ed attore diretto da grandi del calibro di Strehler, Cobelli, Marconi, Mattolini, Landi, Squarzina, Crivelli, Rossi Gastaldi, Benvenuti, Bordon affinché ci racconti questa splendida avventura che sta portando in scena da qualche anno.
Come ci si prepara per un monologo di 90 minuti? Quali le difficoltà?
Si tratta di uno sforzo fisico prima ancora che di memoria. Un attore assomiglia ad un atleta che deve essere costantemente in allenamento per riuscire a dare il meglio di sé.
E per allenamento intendo anche l’agilità, la velocità attenta e studiata con la quale deve sapersi muovere sul palco, padroneggiarlo, in special modo in uno spettacolo come questo dove a tratti si volteggia, ci si siede sulle varie sedie in modo nervoso prima e leggiadro poi, sedie che evocano tutte le anime incontrate nel corso del tempo che lo allontanano dopo la pubblicazione dell’ultimo romanzo, ‘Preghiere esaudite’, e si rovescia il tavolo con una forza che viene dal di dentro, che, più che corporea è emotiva e rabbiosaIn questo il regista è stato perfetto nel dirigermi. Attento a tirare le briglie e a frenarmi in determinati momenti, mentre ha allentato la presa lasciandomi correre per dar sfogo a tutta la mia energia in altri.
Non nego che alla fine della rappresentazione sono sempre esausto, eppure, se possibile, emotivamente ancor più carico. C’è un continuo scambio dal palco alla platea, è una sensazione stupenda, totale, avvolgente.
Lo sforzo di memoria, quello è innegabile, ma, da attore, riesco a gestirlo in maniera apparentemente più facile. Il linguaggio stesso del testo è particolarissimo: pungente, cinico, eccentrico e soprattutto passionale e doloroso, perché la passione sa essere meravigliosamente dolce e crudelmente dolorosa. Ognuno di noi ci è passato, almeno una volta nella vita, e può capire quello di cui parlo.
L’Amore, la Passione, accompagnano le nostre esistenze. Possiamo avere più relazioni appaganti nel corso della vita, ma, almeno questo è il mio pensiero, l’Amore vero, quel battere di cuori all’unisono, capita una sola volta. E questo spettacolo racconta proprio dell’amore più grande di Capote, distruttivo, sofferente, appassionato per Jack Dunphy a cui era legato da un rapporto non esclusivo.
Da italiano come si è approcciato alla cultura statunitense per entrare meglio nel personaggio?
Amo profondamente gli Stati Uniti, li ho vissuti in lungo e largo, li ho nell’animo e mi hanno aiutato a diventare la persona che sono oggi. Lì tutto è possibile, puoi effettivamente realizzare i tuoi sogni e le tue aspirazioni, sempre se lavori sodo.
La sera che morì Philip Seymour Hoffman, premio Oscar per il film ‘Truman Capote – A sangue freddo’ del 2005, ero a New York con una carissima amica. Turbati, ci recammo sotto il palazzo dove abitava per deporre un fiore. Assistemmo da lontano alle esequie, entrare era impossibile, una passerella di VIP di livello internazionale sinceramente addolorati per la perdita dell’amico e dell’artista.
Ecco, quel momento mi ha segnato profondamente. Da lì è nata l’esigenza di approfondire la mia conoscenza su Capote.
Ho apprezzato moltissimo la pellicola a lui dedicata, ‘Infamous’, del 2006, con l’ottimo Toby Jones, ho letto di tutto e mi sono innamorato di quest’uomo che, come nessun altro, è stato capace di svelare i lati oscuri allo stesso modo dei lustrini della società contemporanea.
Ho sentito il dovere di omaggiarlo a teatro, così ho contattato il talentuoso Massimo Sgorbani affinché scrivesse il testo, la regia del grande Emanuele Gamba ha chiuso il cerchio.
Il racconto pubblico – privato, di un personaggio dalle mille sfaccettature: snob, omosessuale, dandy, esibizionista, dalle umili origini che, pur famosissimo, sgomita per trovare il suo posto nel jet set. Come si resta credibili nella messa in scena di un personaggio così variegato?
Il drammaturgo è riuscito in un’operazione non da poco: cogliere e raccontare tutto il variopinto arcobaleno di emozioni che caratterizzava la figura camaleontica di Capote che ha sempre condotto la sua esistenza al massimo. Tutto per lui era rappresentazione, come se vivesse costantemente sotto l’occhio di bue, come se fosse il pezzo forte di una collezione d’arte ad una mostra. Cercava dannatamente l’eccesso, amava far parlare di sé e si integrava perfettamente in quel cangiante vortice che è sempre stata Hollywood, come un funambolo su di una corda, scosso dal fremito di quell’eccitazione che giustifica la sua stessa esistenza. Tra il rumore caotico delle star, Truman riusciva a ritagliarsi un’oasi di apparente tranquillità da cui traeva vigore.
Quanto a me, amo profondamente la sua verve e credo che questa rappresentazione gli renda onore. Grazie al testo, alla regia, ma soprattutto allo stesso Capote, per la prima volta sono veramente soddisfatto di me stesso.
Se dovessi morire adesso, lo farei con la consapevolezza di aver dato il massimo, di aver realizzato il mio sogno, quello che si rincorre in eterno. Ho dato e darò sempre tutto me stesso, ogni singolo aspetto più nascosto di me viene portato sul palco, cosa che non mi è mai più successa e che sono conscio non potrà mai più accadere. Questo per me è e resta uno spettacolo unico.
Geniale quanto autostruttivo, quale il tratto più affascinante di Capote?
La genialità di Capote è strettamente legata alla sua autodistruzione. Un’intelligenza così spiccata, una sensibilità fuori dal comune, la necessità di dimostrare a se stesso e al mondo intero quale fosse la sua vera essenza, il fuoco che gli divampava dentro, non dimenticando di esasperare cinicamente ogni situazione, cela una fragilità dalla quale cercava disperatamente di scappare. Una vita segnata la sua, innanzitutto dalla presenza – assenza di una madre così problematica che non gli dava amore, di cui lui aveva un disperato bisogno, come del resto accade ad ogni essere umano.
La costante necessità di conferme, di autoaffermazione in un contesto così particolare come quello statunitense in cui vive, attorniato da figure gigantesche, attori, registi, scrittori di fama mondiale, mostra, invece, il bisogno di un confronto vero e sincero con se stesso, ma anche con qualcuno che potesse comprenderlo appieno. Ecco spiegato il suo legame simbiotico con Marilyn, la sua “gemella”.
L’interazione continua con un personaggio fuori scena, Marilyn, appunto, ricorda molto l’Eduardo di ‘Questi fantasmi’; è un modo di dialogare con il pubblico, è il flusso di coscienza o cos’altro?
Effettivamente l’interazione rimanda alla scena della commedia eduardiana. Sicuramente entrambi. Il monologo dialogante con il pubblico serve a Capote per spiegare agli spettatori gli accadimenti secondo un ordine preciso e speculare delle vorticose situazioni vissute personalmente, degli scandali che stanno scuotendo la Nazione e dei pettegolezzi imperanti nelle alte sfere della politica.
Serve, però, anche come flusso di coscienza per illustrare, da tutte le possibili angolazioni, i suoi conflitti interiori, le sue altalenanti emozioni, i suoi eccessi spinti fino alla contraddizione. Uno spirito libero che, con sana leggerezza e spiccata profondità sapeva esprimersi al massimo e che faceva della provocazione il suo stile di vita. Inarrivabile!
Perché la figura evocata è proprio quella di Marilyn Monroe?
Marilyn è il suo alter ego femminile. Entrambi hanno avuto un’infanzia difficile segnata dall’abbandono, da problemi sociali e familiari, da genitori irresponsabili che, invece di proteggerli, li hanno feriti, disinteressandosi di loro. Solo una persona in grado di condividere gli aspetti più drammatici del suo vissuto poteva fargli da sponda. Per esperienze personali, l’uno si fondeva e confondeva nell’altra e il fatto che accadesse senza implicazioni romantiche o erotiche, rendeva tutto naturale.
Entrambi diversi, etichettati come tali, persi in quella solitudine estrema, in cui a volte si abbandonavano fino a crogiolarvisi, e da cui uscivano solo per recitare un copione vero o metaforico.
Entrambi intrusi, visti come minaccia da chi, per egoismo ed invidia non poteva sopportare la loro grandezza. Entrambi esteti, provocatori, libertini, depressi, dannati si davano agli eccessi, all’alcol, alla droga. Li accomuna anche la tragica fine, seppur ad una età più matura per lui per cirrosi epatica, ma sempre dettata da quell’autodistruzione che li ha consumati, attimo dopo attimo.
Rapida ascesa dell’intellettuale che ben presto lascia il posto al personaggio, protagonista di talk show e dibattiti televisivi. Chi ha lasciato più il segno nella storia d’America, lo scrittore o il personaggio?
Lo scrittore sicuramente. Il suo estro, le sue intuizioni, la sua capacità di emozionare tramite i suoi capolavori letterari secondo me, sono stati significativi. Da alcuni suoi splendidi testi sono stati tratti film che restano immortali, con protagonisti artisti indimenticabili.
La dolcezza mimetizzata da una coltre di cinismo rivela un animo tormentato che fa di tutto per non omologarsi, che si ribella per provare invano a placare la sua smania, perennemente in cerca di una pace che non troverà mai. Irrequieto, dissacrante, dissacratorio, assetato d’Amore e di emozioni, resta, in fondo, sempre quel bambino alla continua ricerca di rassicurazioni da una madre assente, che cade rovinosamente e si rialza sempre una volta in più in maniera combattiva.
Che poi amasse anche essere al centro della scena dettando mode e comportamenti è palese. Un animale da palcoscenico pronto ad impersonava vari ruoli, quasi fosse uno dei tanti personaggi narrati nei suoi libri.
L’apice della sua carriera sociale lo toccò nel 1966, quando organizzò il Black and White Ball, un’indimenticabile festa al New York City Plaza Hotel, con ospite l’alta società del tempo, evento mondano di cui si parlò per anni.
Se si pensa ancora al particolare periodo in cui ci troviamo in un’America che ha sempre imposto standard elevatissimi, allora si capisce come Capote dovesse necessariamente vivere al massimo per riuscire a tenersi a galla.
Qual è il Capote che viene portato sul palco?
Tutto questo caleidoscopio emotivo e caratteriale si dipana nello spettacolo.
Un camaleonte affascinante e carismatico in grado di mostrare al mondo tutti i suoi innumerevoli volti, le sue debolezze, la sua corazza: un pavone sofferente e insofferente, insomma.Il linguaggio irriverente, a tratti lascivo della messa in scena può destabilizzare lo spettatore, ma anche renderlo compartecipe di quel dolore profondo che dimora in ognuno di noi. Qualunque sia la causa, ogni essere umano cova un’insoddisfazione latente, un voler essere altro da sé, un’inadeguatezza atavica che lui combatte con un atteggiamento sfrontato, sopra le righe, con quella personalità multivariegata che irradia tutte le sue problematiche irrisolte.
Nonostante da attore io sia allenato a padroneggiare le emozioni per farle fuoriuscire in maniera amplificata o più sottile, a seconda della sensazione da trasmettere, c’è un momento dello spettacolo, in cui ne sono travolto. È un momento poetico e straziante per me. Fatico a trattenermi, faccio quasi una violenza su me stesso, sento così tanto il suo tormento che gli occhi si inumidiscono, riempiendosi di lacrime, poi mi domino, evitando di piangere.
Ora che lo racconto, invece, posso permettermi di avere una voce tremante. Ora non sono in scena, eppure, è come se lo fossi, sto rivivendo quel preciso attimo in cui tutto cambia e in cui avrò una consapevolezza maggiore di lui e di me stesso. Onore ed onere di vestire i panni di un essere tanto speciale: ogni volta è emozionante, dirompente e rigenerante.
La pièce è in scena da qualche anno, in piazze diverse; qual è la risposta del pubblico?
Sono un attore molto empatico, prendo tantissimo dal pubblico e restituisco la carica che mi dona. Spesso, a seconda della città in cui mi trovo, noto una risposta differente. C’è chi rimane immobile, con lo sguardo impenetrabile per tutti i novanta minuti per poi abbandonarsi all’applauso frenetico. C’è chi compartecipa, sorridendo, ridendo in modo amaro per tutta la durata della rappresentazione; non si tratta mai di una risata piena e liberatoria, ma ha sempre un retrogusto amaro. C’è chi a volte storce il naso, dato il registro forte, per poi commuoversi nei momenti più intensi.
In generale, credo sia un’esibizione adatta per chi vuole riflettere ed interrogarsi sul senso della disparità, sulla crudeltà delle relazioni familiari e sociali, consapevole che i rapporti più veri sono quelli che si scelgono e non quelli che si subiscono per vincoli di sangue. Uno spettacolo crudo, ma estremamente magico, che viene accolto bene, cosa che spero accadrà anche a Napoli, solitamente città molto esigente, data la lunga tradizione teatrale e i mostri sacri che le hanno dato lustro, e che guarda, a volte, con aspettative molto alte chi viene da fuori, ma che sa apprezzare, più di altre, chi merita davvero.
Autore Lorenza Iuliano
Lorenza Iuliano, vicedirettore ExPartibus, giornalista pubblicista, linguista, politologa, web master, esperta di comunicazione e SEO.