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Introduzione all’Alchimia

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Mutus Liber


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L’Alchimia, almeno nel senso in cui la intendiamo adesso, nasce in epoca ellenistica per l’innesto del pensiero greco su alcuni elementi della religiosità egiziana; lo stesso nome “Alchimia” trae origine da un attributo di Iside “la nera”, kemia, in egiziano. In effetti l’opera alchemica ripete, nei suoi significati, il ciclo di Osiride così come tramandatoci da Plutarco.

Il senso di questa sequenza è una successione di morte-rinascita tipica dei culti agrari originatisi nel neolitico, presenti ovunque nel Mediterraneo e rimasti alla base dei cicli misterici ed iniziatici noti in epoca storica; esso consiste in un lavoro di ampliamento della coscienza; in Alchimia ciò avviene attraverso una discesa, descensus, nel buio della materia informe, seguita da una successiva ascesa ascensus sublimatio.

Il senso originario dei cicli iniziatici consisteva nel superamento del timore della morte attraverso la partecipazione alla ciclicità della natura, soprattutto del grano, ostensione della spiga in Eleusi, che rinasceva verdeggiante dopo la morte, il seme nel terreno. L’iniziato conseguiva, così, una superiore comprensione del reale.

L’Alchimia si divideva, sin da allora, in tre tappe:

  • L’Opera, che trasmuta i metalli in oro puro dallo stato di metallo imperfetto.
  • L’Elisir di Lunga Vita, specie di medicina universale, capace di guarire ogni malattia e di assicurare una longevità considerevole, finanche l’immortalità. Non bisogna prendere queste affermazioni se non nel loro senso spirituale.
  • La Reintegrazione Universale, cioè la rigenerazione del Cosmo Intero attraverso tutte le creature spirituali e scopo ultimo della vera Alchimia.

Non c’è differenza essenziale tra la Nascita Eterna, la Reintegrazione e la scoperta della Pietra Filosofale. Essendo tutto uscito dall’Unità, tutto deve ritornarvi in modo simile.

In queste parole si può trovare un esplicito riferimento all’Elisir di Lunga Vita:

La rinascita è triplice, prima la rinascita nella nostra ragione, in secondo quella nel nostro cuore e nella nostra volontà, ma pochi hanno conosciuto la rinascita corporale.

L’Alchimia da millenni, dunque, è un argomento che affascina, soprattutto per l’alone di mistero che la circonda, anche perché non è una materia semplice.

Leggere per la prima volta un libro di Alchimia e cercare di cogliervi un senso preciso è un’esperienza frustrante: enigmi, contraddizioni, allegorie, simboli, interruzioni e reticenze improvvise suscitano in chi legge l’impressione di essere vittima di una beffa straordinaria.

Spesso la strada giusta è nascosta dietro omissioni, storpiature, elementi dissonanti.

Per lo scrittore di Alchimia l’impegno è esporre tacendo, senza mai oltrepassare i limiti oltre i quali la spiegazione diverrebbe delazione.

Fulcanelli scrisse:

Talvolta davanti all’impossibilità nella quale ci troviamo, di spingerci più in là senza violare il nostro giuramento, abbiamo preferito mantenere il silenzio.

Di quale giuramento parli, possiamo forse intuirlo da un antico manoscritto conservato a Venezia, che riporta una formula nella quale l’alchimista si impegna, in nome della Trinità, a non rivelare i principi essenziali della dottrina, pena terribili castighi divini.

Pur badando a non oltrepassare mai il limite della delazione, gli autori di Alchimia sono più o meno aperti alle confidenze e in rapporto a ciò meritano la definizione di invidiosi o caritatevoli, avari o prodighi. Invidioso o avaro è colui che si adopera con ogni mezzo per trascinare chi legge su di una falsa pista; caritatevole o prodigo è chi fornisce magari poche spiegazioni, ma sempre veritiere.

Purtroppo, una precisa suddivisione nelle due categorie non è possibile. Autori che sono invidiosi per pagine e pagine, possono diventare caritatevoli su qualche passaggio specifico delle operazioni, e, viceversa, autori caritatevoli possono nascondere in mezzo a molte cose esatte una sola menzogna, sufficiente però a stravolgere il significato di ogni cosa.

In altri casi, gli alchimisti hanno usato immagini allegoriche per rivisitare la mitologia e la storia sacra, allo scopo di farne rappresentazioni allegoriche della Grande Opera.
La vicenda biblica del profeta Elia, rapito in cielo su di un carro di fuoco, è usata nei libri di Alchimia come raffigurazione dell’alchimista che ha realizzato il lavoro, ottenendo la trasmutazione di se stesso.

Anche la creazione di Adamo è assimilata all’opera alchemica, poiché come Dio trasse Adamo dal fango, così l’alchimista trae la Pietra Filosofale da una materia iniziale vile. Il parallelo Cristo nato dalla Vergine Maria = Lapis, pietra Filosofale, nato dall’Acqua Mercuriale trova spazio già nella prima Alchimia latina e conduce ad interpretare tutto il mistero cristiano in chiave ermetica.

In realtà, la difficoltà di accesso non serve soltanto a tener lontano i curiosi e gli indegni; è anche lo strumento idoneo a trasformare i meccanismi mentali del lettore, rompendo il suo ordine logico e risvegliando in lui regioni di coscienza oscurate, le uniche a consentirgli di comprendere l’essenza della Grande Opera.

La rottura del piano razionale come mezzo indispensabile per poter accedere allo stato di risveglio, di illuminazione, in cui tutto acquista un senso, è lo stesso perseguito dallo Zen e da altre dottrine esoteriche. Il cifrario più difficile da sormontare non è dunque quello esterno al testo, che – quando è presente – può essere ricostruito con qualche sforzo.
Il vero cifrario, che rende impenetrabili i testi, è quello non convenzionale che proviene naturalmente dalla realtà che cela.

Ad accentuare la confusione si aggiunge la considerazione che le stesse fasi del processo alchemico sono diverse a seconda degli autori, anche se i significati analogici restano gli stessi malgrado l’infinita varietà dei nomi. L’enorme nomenclatura è infatti da attribuirsi alla interiorizzazione della natura operata dagli alchimisti, che ha dato luogo a termini personalissimi e volutamente oscuri per alludere a fenomeni sostanzialmente sempre analoghi.

Il numero di queste fasi è legato ai significati magici dei numeri stessi; esse sono, a seconda degli autori, 4, 3, 7 o 12. Si può tuttavia riassumere il processo in 4 fasi, che furono successivamente ridotte a 3 in epoca cristiana per evidenti esigenze trinitarie.

Le 4 fasi dell’alchimia debbono la loro origine all’importanza della tetrade in tutto il pensiero sapienziale greco, e antico in generale, Roma era quadrata e rotonda, e presero il nome dai 4 colori fondamentali della pittura greca, nero, bianco, giallo, rosso. Esse furono parallelizzate ai 4 elementi, alle 4 stagioni, e alle 4 fasi del giorno, facilmente rintracciabili:

Melanosi

Nigredo

Opera al nero

Leucosi

Albedo

Opera al bianco

Xantosi

Citrinitas

Opera al giallo

Iosi

Rubedo

Opera al Rosso

Terra Acqua Aria Fuoco
Inverno Primavera Estate Autunno
Notte Aurora Giorno pieno Tramonto

 

Di queste fasi, la Xantosi non ha praticamente una propria autonomia, e scompare con l’affermarsi delle esigenze trinitarie; le tre restanti corrispondono, con analogia agraria, alla semina, inverno, alla germinazione, primavera, e alla raccolta, autunno.

Essenziale al conseguimento dell’obiettivo è la morte iniziale e la successiva “putrefactio” simboleggiata dalla semina, il seme nella terra si macera, corrispondente alla “nigredo” e all’inverno. Perché il seme fruttifichi esso deve essere infatti sepolto nella terra per tutto l’inverno. Questo è il “regime di Saturno”, la fase “al nero” che copre da sola la metà del ciclo, così come la notte copre la metà del ciclo solare giornaliero.

Nella tradizione simbolica l’idea delle tenebre non ha un significato negativo, perché corrisponde al caos primigenio dal quale può nascere ogni cosa, esso è infatti associato all’invisibile e all’inconoscibile, quindi anche alla divinità creatrice originale, o la scintilla iniziale da cui tutto si è palesato, alla faccia nera della Luna o alla luna nera.

Al “regime di Saturno” segue il “regime di Giove”, per questo motivo molti autori, dopo la “nigredo”, inseriscono la fase detta “cauda pavonis”, caratterizzata dai 7 colori dell’Iride. Iride è messaggera di pace inviata da Giove e i 7 colori formano egualmente il bianco; altri autori fanno invece precedere la “rubedo” dalla “viriditas”, opera al verde.

L’analogia tra “albedo” e “viriditas” può essere così impostata. Il “lavaggio”, “baptisma”, conduce dalla “nigredo” alla “albedo” corrispondente all’elemento acqua, alla “luna”, alla “Regina”, la “rubedo” è il “Rex” della “unione degli opposti” o “nozze chimiche”.

L’opera al bianco è fase animica e quindi non può essere il termine dell’opera; essa tuttavia è la fase fondamentale della resurrezione posta all’insegna dello “umido” e della primavera. In questo si vede la sua equivalenza con la “benedicta viriditas”. Il verde è il colore della vegetazione risorta, il colore della Resurrezione e dello Spirito Santo. Osiride rinato, che è vegetazione rinata a campo verdeggiante, è “bianco”.

Horus è bianco, Osiride è nero

dice Plutarco; ma Horus è appunto Osiride rinato mentre il “nero” si riferisce ad Osiride smembrato.

L’unione alchemica di bianco e rosso trova equivalenza nel pane e vino della Messa, intesi come “femmina” e “maschio”, anima e spirito. Il pane, del resto, si fa con il grano, la pianta protagonista del ciclo agrario che verdeggia a primavera e simboleggia lo “opus”, il cui scopo primo è la rinascita, o “albedo”, o “viriditas”. Questa unione di bianco e rosso, o di verde e rosso, è la corretta analogia da ricordare al riguardo.

La Rubedo, che ha come colore il rosso, ha una serie di significati, compimento, armonizzazione, gioia, raccolto, individuazione del Sé, pienezza, apertura alla vita, spiritualità, armonia, tolleranza, rispetto, alleanza, pace interiore, amore universale, amore per se stessi, accettazione, vitalità, profondità.

La Rubedo è l’evaporazione, l’operazione che trasforma la materia solida in sostanza gassosa. È il momento del movimento dinamico degli opposti. Prendendo consapevolezza delle proprie contraddizioni, può cominciare ad assumere forma un senso di centralità. Questa tappa è caratterizzata dall’incontro con l’archetipo del Sé. Tale archetipo è la summa del percorso di individuazione, il fine dell’individuo che si dispiega avanti a lui, come un fiore che sboccia. Viene rappresentato come luce, come mandala, come quaterna, come centro e come Dio. Tale archetipo rappresenta l’individuo stesso, tutto ciò che durante la strada ha visto e ha accumulato.

Ulteriore confusione può essere portata da quelle che sono le sostanze al centro dell’alchimia.

Intanto, bisogna considerare che gli autori antichi parlavano solo di Zolfo e Mercurio, Solve et Coagula, basando l’intera Alchimia su questi due Principi opposti/complementari, successivamente è stato aggiunto il Sale come terzo aspetto della stessa materia.

Anche qui, però, cambia la terminologia, cambia il modo di confondere le carte, ma la sostanza è sempre la stessa.

Mentre lo Zolfo rappresenta il principio maschile ed il Mercurio il principio femminile, il Sale rappresenta il principio neutro e mediatore fra gli altri due, da esso prendono peso e forma tutte le cose.

Lo Zolfo, principio divino, unitario e immutabile, corrisponde allo spirito; il Mercurio, principio vitale, duale e mutabile, corrisponde all’anima; il Sale, principio materiale, corrisponde al corpo.

Per l’Alchimia l’Uomo, microcosmo, è manifestazione del Principio Uno, macrocosmo.
Il composto umano può essere considerato quindi come combinazione delle tre sostanze, Zolfo, Mercurio e Sale, ma anche come un quaternario di Elementi, Fuoco, Aria, Acqua, Terra, o un settenario di Metalli, Piombo, Stagno, Rame, Argento, Mercurio, Ferro, Oro.

La tripartizione dell’essere è un’idea antica: la filosofia greca supponeva che gli uomini fossero composti di soma, corpo, psyché, anima, principio vitale, e nous, intelletto, principio immortale e divino.

Ovviamente lo Zolfo, il Sale e il Mercurio alchemici non hanno niente a che vedere con gli elementi chimici omonimi.

Ma cosa sono invece? Ovviamente delle metafore.

Lo Zolfo è un “non metallo”, vale a dire che ha una spiccata proprietà elettronegativa. Che significa questo? Che guadagna elettroni di valenza da altri atomi più facilmente di quanti ne ceda.

In sostanza ha una proprietà attrattiva e questo ben si sposa con il concetto alchemico per cui lo Zolfo è il Principio fisso, responsabile di ogni coagulazione/fissazione. Attira, assorbe, elettroni dagli altri atomi.

L’elemento chimico dello Zolfo si presenta quindi un non metallo inodore, insapore generalmente nella sua forma cristallina di colore giallo. È un elemento essenziale per la vita di ogni essere vivente, dove si trova in molti amminoacidi e di conseguenza in quasi tutte le proteine. È insolubile in acqua.

In Sanscrito lo Zolfo era chiamato “sulvere”, da cui poi il latino “sulfur”, e la cosa è interessante se si pensa a quanto questo termine sia vicino a quello di “solvere”, caratteristica di suo “fratello” Mercurio e ben contraria al suo coagulare/fissare.

Ma veniamo adesso proprio al Mercurio. Si tratta di un metallo di transizione pesante, di color argenteo. È, insieme al bromo, l’unico metallo ad essere liquido a temperatura ambiente, esistono altri elementi che possono liquefarsi a temperature ambientali particolari, ma sono solidi se consideriamo la temperatura ambiente standard, convenuta a 25°.

Avendo due soli elettroni sull’ultimo orbitale, questi hanno la proprietà di delocalizzarsi e viaggiare liberamente attraverso la matrice metallica, formando una nube di elettroni. Questa è proprio la qualità volatile del Mercurio alchemico, come anche rappresentato dal dio Ermes che aveva sia le calzature che l’elmetto alato, chiamato anche il “fuggitivo” o il “viaggiatore”.

In laboratorio, quasi tutti gli strumenti che finiscono per “metro”, barometro, termometro, etc., sfruttano appunto la caratteristica liquida di questo metallo che scorre da un estremo all’altro di scale prestabilite.

A differenza dello zolfo, è un elemento raro nella crosta terrestre, come raro appunto secondo gli autori è riuscire ad afferrarlo.

Solve et coagula dunque, lo Zolfo elettronegativo attira/condensa, mentre il Mercurio fugge/transita. Ma veniamo adesso al Sale, il cui ruolo è particolarmente interessante.

Il Sale, a differenza di Zolfo e Mercurio è un composto. Vale a dire che è formato da più elementi insieme. È un composto ionico, elettricamente neutro e generalmente sotto forma cristallina.

Un composto ionico è formato generalmente, guarda caso, da un metallo e da un non metallo, dove il metallo cede di solito alcuni elettroni al non metallo, caricandosi positivamente.

Dunque abbiamo un Sale che generalmente è formato da un metallo, come lo è il Mercurio, e da un non metallo, come lo è lo Zolfo.

Il Sale è propriamente quel “mediatore” che mette d’accordo in se stesso le due nature opposte di Zolfo e Mercurio. Il Sale è particolarmente “amico” sia dell’acqua che del fuoco. Chi ha provato ad esempio a mettersi del sale su una scottatura sa bene quanto il sale assorba, attiri a sé il fuoco, estirpandolo dalla pelle, così come lo fa anche con l’acqua, anticamente il sale infatti era usato per conservare i cibi, ne assorbiva l’acqua e li essiccava. Nel Sale dunque, neutro, Zolfo e Mercurio trovano unione, il matrimonio perfetto che dà origine a una cosa sola.

Ma andiamo avanti ancora un po’. Gesù disse “sono il Sale del mondo” e come il sale da cucina rappresenta quella sostanza, quel “fuoco” che dà sapore alle cose, che le “colora”, le vitalizza, tirandole fuori dall’insipidezza. Un cibo senza sale è un cibo senza sapore/sapere. È il sale che dà il sapere. Non per niente un’espressione tipica è quella di “mettere il sale in zucca”.

L’accostamento avvenne per la prima volta per l’opera di Paracelso che lo definì la “qualità del corporeo”. Nei trattati e nelle ricette alchemiche fu inteso come il Sale dei filosofi, il Sale della Sapienza eterna la cui origine era nell’Allume, l’essenza indifferenziata e primitiva.

Il simbolo del sale è un cerchio con un taglio verticale in mezzo, emblema dell’eternità, di Dio che non ha inizio né fine, delle acque dell’Oceano cosmico che nel Caos primordiale appaiono sotto forma di una massa confusa in cui gli elementi non sono separati. Quando avvenne la divisione tra il firmamento e il mondo, questa “materia prima” acquisì la natura celeste della quintessenza diventando la radice di tutti i corpi, il sale dei metalli.

Il diametro orizzontale simboleggia tale avvenimento che ordinò e stabilizzò tutto il creato, scindendo il Cosmo in Macro e Micro, in acque superiori ed inferiori. Il Sale è, nell’immaginazione alchemica, ciò che determina l’equilibrio, la stabilizzazione, la combinazione armonica tra anima e spirito, tra zolfo e mercurio. Il parallelo, che gli alchimisti intesero vedere tra Lapis e Cristo, trova nel sale un fondamento. Essi indicarono in Gesù il Sale che compenetra Cielo e Terra, l’elemento che sterilizza ogni cosa, che vince ogni male, redendo il corpo e l’anima. Il nesso tra Sale e Cristo fu concepito anche per quel concetto di stabilità a cui il Sale era legato.

Nell’immaginazione attiva dell’Alchimista, l’equilibrio divenne sinonimo di solidificazione, di cristallizzazione espressa sotto le forme dei cristalli ottenuti negli esperimenti di laboratorio alla ricerca del «tesoro nascosto», frutto della combinazione dei tre principi originatori. Da qui il parallelo tra il Lapis «trinus et unus» alla Divinità. Il sale fu il principio della conservazione, dell’incorruttibilità, della purificazione, come ancora oggi nelle cerimonie shintoiste è creduto.

Il Sale dei Filosofi è un fuoco dove non ci sono fiamme ovviamente; si tratta più che altro di un fuoco “salino” che attira, unisce e cuoce in sé stesso le due nature contrarie di Zolfo e Mercurio. È quel Vaso segreto, quell’uovo filosofico, nel quale l’alchimista cuoce e conduce alla massima perfezione il suo Rebis, la sua Pietra.

A proposito di metalli, una curiosità sul piombo, altro elemento largamente menzionato dagli alchimisti i quali si proponevano di trasformare il piombo in oro.

Il piombo, metallo tenero e pesante, è nocivo alla vita. La cosa più interessante da notare è che per gli alchimisti rappresentava la più bassa forma di vita minerale, la più grezza e volgare. Oggigiorno, guarda caso, si presume che il piombo sia il decadimento totale dell’uranio, vale a dire che, quando questo metallo altamente radioattivo perde completamente la sua radioattività, si trasforma in piombo. Il piombo è dunque la manifestazione più bassa dell’uranio, la più morta.

Un’ultima considerazione è da fare sulle cosiddette vie alchemiche, fondamentalmente ve ne sono quattro:

  • la via umida;
  • la via secca;
  • la via mista o dell’amalgama;
  • la via breve.

La via umida, secondo i maestri, è la più nobile. Come indica il suo nome, umidità significa liquida o salina componente la materia solvente, più conosciuta sotto il nome di fuoco segreto.

La sua durata è più o meno lunga a seconda della via impiegata. Diversi autori parlano di vie umide che durano parecchi mesi e di altre della durata di meno di un mese.

La via secca è eseguita esclusivamente al forno e con crogioli refrattari, con temperature vicine ai 1000°C. È una via difficile e molto laboriosa che anche un artista, sia pure in possesso di numerose conoscenze sul modo di operare, non riuscirà ad eseguire senza l’aiuto di un Maestro o di un fratello che la conosca. Si dice che sia meglio non tentarla da soli.

La via mista o via dell’amalgama, è la più descritta, come le vie di Filalete, Flamel, Lullo Alberto e di Artefio.

Viene definita mista perché all’inizio è necessario utilizzare la via secca per la preparazione del regolo marziale, come nel caso della via di Flamel, di Filalete e di Artefio.

Dopo questa prima operazione per via secca, e dopo aver ottenuto il regolo marziale, passaggio che non richiede condizioni sottomesse alle medesime influenze esterne richieste dalla via secca, si prosegue operando in piccoli crogioli, utilizzati per realizzare l’amalgama filosofico.

Nella via breve sono inclusi i “particolari”, il che fa sì che di tale via non se ne parli come propriamente alchemica.

Se la via secca non è accessibile a tutti, la via breve è riservata unicamente agli specialisti ed è necessario avere delle condizioni particolari per realizzarla.

Autore Pietro Riccio

Pietro Riccio, esperto e docente di comunicazione, marketing ed informatica, giornalista pubblicista, scrittore. Direttore Responsabile del quotidiano online Ex Partibus, ha pubblicato l'opera di narrativa "Eternità diverse", editore Vittorio Pironti, e il saggio "L'infinita metafisica corrispondenza degli opposti", Prospero editore.