Ritratto dell’artista tra teatro, televisione e impegno sociale
Incontriamo il simpaticissimo attore Raffaele Imparato in un noto locale del centro storico di Napoli e passiamo con lui un’oretta in piacevole relax. Sorriso sincero, sguardo pulito, dolce, sensibile, concreto e molto maturo. Nonostante la giovane età ha collezionato già una serie di esperienze lavorative importanti. Durante la nostra chiacchierata traspare in lui un profondo e sincero amore per il teatro.
Partiamo dalle sue ultime esperienze professionali televisive e teatrali, per passare ai suoi impegni universitari che lo vedono coinvolto anche in attività pedagogico-riabilitative, per terminare poi con la sua partecipazione nella social soap Un Posto al Sole.
Ci racconta del telefilm in 12 puntate trasmesso in questo periodo, in prima serata, da Rai Uno, Grand Hotel, ambientato ad inizio ‘900, in cui ha avuto una piccola parte, quella di un fattorino dell’hotel, per la regia di Luca Ribuoli. La sua partecipazione al progetto, ci spiega, è nata quasi per caso, un provino fatto mesi prima per una parte diversa in un’altra fiction. È l’ennesima dimostrazione, ci dice, che se lavori in un certo modo, anche se sei ‘fuori ruolo’ può convincere come attore e, in qualche modo, il regista accortosi di te, anche a mesi di distanza, ti tiene comunque in considerazione. Gli interni sono stati curati a Roma, gli esterni in Trentino. Confessa di avere un debole per le atmosfere in cui l’ambiente è ricco di vegetazione e si mangia in modo salutare, anche se, abituato al clima mite di Napoli, sarebbe difficile viverci in inverno. Il ruolo interpretato non era particolarmente importante ai fini della trama, eppure il regista è riuscito a colorarlo dandogli spessore, permettendogli di renderlo professionale ma anche rapido e furbetto, così che, nel suo piccolo, destasse curiosità.
Ci spiega che in un progetto televisivo, in particolare per poche pose, non si ha la possibilità di sapere in anticipo come il regista intenda direzionare il personaggio e, per quanto si possa studiare, è preferibile lasciarsi un margine di sospeso per poterlo appunto preparare con lui. Poche scene e battute, ma ha cercato di scongiurare l’’anonimato’, giocando sullo sguardo, ad esempio, per direzione e ritmo e sulla postura abbastanza impettita ed innervata che il ruolo imponeva. Non ci nasconde, sorridendo, che la parte sia stata, quindi, fisicamente più stancante del previsto.
“Fare in alcune scene anche solo la comparsa è stato un po’ come rivivere da adulto ciò che ho fatto nei laboratori: “esercizio” di ascolto ed immaginazione al di là del testo ufficiale, improvvisare ed inventare al momento punti di vista. Fare la comparsa, da attore mi divertente molto, perché occorre trovarsi delle motivazioni ma con libertà, una sorta di ‘storia parallela’ dato che i personaggi vivono al di là delle inquadrature e delle didascalie”.
I ciack ripetuti più volte di seguito, aggiunge, danno la possibilità, naturalmente, di migliorarsi automatizzando i movimenti delle azioni e i tempi rispetto alla camera. “Lavorare ad un progetto importante con un regista appassionato che sa quello che vuole indipendentemente da quale sia la fruizione, se televisiva o teatrale, è sempre entusiasmante”.
Prima di imbarcarsi in questo progetto non immaginava che un ruolo così piccolo potesse essere poi tanto autonomo rispetto alla storia. “Mi auguro che lo spettatore riesca a vedere non un manichino, appunto, ma una ‘divisa con una propria identità’. L’ultimo giorno mi hanno salutato con una simpatia ed un affetto sincero, neanche avessi interpretato uno dei protagonisti”.
Come riesce a conciliare l’attività di studente universitario di Logopedia alla Seconda Università degli Studi di Napoli con quella lavorativa di attore, chiediamo. Non è affatto facile, spiega; si tratta pur sempre di due lavori in cui la relazione con l’altro e l’esser presenti a sé stessi sono fondamentali. Se deve girare delle scene in cui è importante lavorare sulla leggerezza, su un benessere e sull’umorismo o invece, per esigenze di studio, deve concentrarsi sulle dinamiche universitario-ospedaliere con tutte le difficoltà che ne derivano, preferisce dedicarsi, a seconda del caso, ad una parte del copione o del percorso accademico, per dare il meglio. In ospedale è necessario spendersi molto perché quando si è sereni, lucidi e ‘affabulatori’ il paziente si stanca di meno e rende di più.
L’obiettivo primario, sottolinea, è laurearsi “bene”; “al di là dei voti, mi piace capire, analizzare criticamente quello che studio, approfondirlo in modo che diventi una mia competenza e non sia solo finalizzato al superamento dell’esame in sé, altrimenti la vivo male. Quindi se in un determinato periodo non posso farlo, vorrà dire che quell’esame slitterà e me ne assumerò la responsabilità, anche economica talvolta”.
Attualmente se si tratta di replicare uno spettacolo, continua, anche se deve riprendere lo studio, avendo già conosciuto e sperimentato la visione del regista sul personaggio, lo fa volentieri. Se invece deve iniziare un nuovo progetto alla luce di un costante aumento di consapevolezza sulla complessità del lavoro, preferisce, da professionista coscienzioso, non farlo affatto, non retrocedere o accontentarsi da un punto di vista interpretativo piuttosto che ‘presenziare e far curriculum’.
Racconta poi, con gratitudine, della grande opportunità di fare ‘teatro-terapia’ al Centro di Riabilitazione A. Buonincontro di Casalnuovo di Napoli, sotto la direzione del Dott. N. Angelillo.
“PretesTeatrO”, questo il nome del progetto sperimentale che coinvolge 22 pazienti di cui si occupa insieme all’amico Nello Mallardo, ex allievo e veterano assistente alla regia di Carlo Cerciello, direttore del Laboratorio Permanente del Teatro Elicantropo.
Strutturare e fare attività teatrali in un Centro di riabilitazione semiresidenziale, continua Raffaele, dà gratificazioni impagabili ma è assai dispendioso in termini di energie. Il primo anno è servito soprattutto a loro due a capire quali strategie, metodi e approcci fossero più funzionali, è servito a ‘bombardare cautamente’ di stimoli, su diversi livelli di esperienza, i partecipanti. Si tratta di un gruppo eterogeneo di pazienti sia per età che patologie; nel lavoro, il gruppo è apparso sempre più coeso, ognuno ha messo in mostra le proprie abilità, non solo le disabilità, segno che il germe dell’autostima è resistente, nonostante tutto. Questo anno, che sta per iniziare, sottolinea, deve differire dal primo da un punto di vista scientifico in senso stretto e quindi della specificità e della analiticità; il materiale finora raccolto va indirizzato per capire qual è l’obiettivo da conseguire in modo nitido e strutturato, a quali pazienti rivolgersi veramente e quindi monitorare, soprattutto sperimentalmente, i loro progressi nel tempo, magari con un gruppo di controllo.
“Ora sto finendo di studiare delle tesi sull’argomento per avere un’idea delle teorie consolidate così da evitare di indirizzarmi su risultati ormai assodati o, peggio ancora, superati. Nell’epoca dell’opinionismo, ognuno si affanna a dire la propria, mentre basterebbe solo studiare per trovare gran parte delle risposte”.
Sottolinea quindi l’importanza della drammatizzazione, come gioco di finzione, sui vari aspetti dello sviluppo dell’individuo, non solo per la comunicazione verbale e non, ma più in generale per il rifondare le ‘articolazioni’ del nostro rapporto col mondo, sia quello interno che esterno.
“Grazie a Carlo Cerciello, al quale va la mia immensa riconoscenza, è come se avessi ricevuto gli strumenti per trovare il mio teatro, svincolandomi dal puro narcisismo, inevitabilmente in agguato. Mi piace concretizzare per mettere in ‘moto’ chi partecipa al rito, un ‘moto’ anche piccolo ma che sappia di cambiamento. Il teatro studiato e fatto per l’’attore-paziente’ permette di scoprire che basterebbe ri-affrontare le tappe del percorso ludico-evolutivo del bambino, quando è tutto corpo, intenzione, imitazione e proiezione, non ancora ‘linguaggio adulto’, per comprendere gli step necessari, ma non sufficienti, per affrontare un testo e un personaggio; la strada dall’infanzia all’adultità e quella dalla prima lettura al ‘chi è di scena/e azione!’ vanno in parallelo. Quello che non smetterò mai di cercare è l’opportunità di lavoro con persone di grande passione e competenza e con le quali, di conseguenza, ogni minuto trascorso è di una ricchezza che genera ‘dipendenza’”.
A questo punto, incuriositi, gli chiediamo quando ha iniziato a muoversi nel mondo del teatro, se è stata la sua passione da sempre o il frutto di una folgorazione.
Rivela che da piccolo, piuttosto introverso, silenzioso e impacciatello con i propri coetanei, preferiva ascoltare un qualche vecchio amico di famiglia, disegnare, hobby che coltiva tuttora, giocare da solo o comunque con un numero limitato di coetanei, rifugiarsi in forme espressive alternative al rapporto sociale che può essere quello del calcetto; meglio ‘fare i travestimenti’, anche con quello che restava dei carnevali precedenti, impersonare dei ruoli e immaginare delle storie o da solo o con pochi fidati amici.
In terza elementare, nel teatro S. Giacomo, uno spettacolo teatrale per festeggiare l’entrata dell’Italia nell’euro sale per la prima volta sul palco insieme a tutta la scuola ma è cinque anni dopo, in terza media che la scena lo vede protagonista, gli dà la possibilità di ‘rinascere’, di autorealizzarsi, di rivendicare, da sconosciuto, il proprio diritto di esistere e di vivere, quindi, un riscatto impagabile ed introvabile altrove, superando i pregiudizi e destando, quindi, anche un interesse insolito negli altri.
“Nei contesti quotidiani prevaleva sempre, sistematicamente l’aspetto, le abilità e la personalità di qualcun altro, ascoltare in disparte era quasi una scelta obbligata, un po’ frustrante; ora ascolto con gioia, con rapimento e quindi per scelta”.
Inizia così a fare spettacoli con il teatrino della chiesa, in modo amatoriale, ignorando completamente la funzione del teatro per una società. Successivamente con il sostegno della famiglia che lo asseconda nelle sue attitudini, frequenta a quindici anni uno stage per attori monosettimanale presso un’agenzia di Roma dove sperimenta tantissimo grazie al gruppo e ai suoi due affettuosissimi insegnanti.
“Bisogna scoprire e conservare la responsabilità di voler capire e imparare di continuo”.
Altra tappa fondamentale, se non la principale, del suo percorso formativo è il triennio al Laboratorio Permanente del Teatro Elicantropo, diretto da Carlo Cerciello in cui comprende la funzione sociale del teatro e, quindi, dell’attore, totalmente sconosciuta fino a quel momento, una funzione atta a scuotere le coscienze verso un determinato argomento, con la suggestione del ‘Bello’, ovviamente.
“La soggezione, verso il regista ad esempio, può essere un ostacolo non indifferente alla creatività di un attore, ora sono decisamente più consapevole di ciò che significa vivere il lavoro e impegnarmi divertendomi”.
Ci racconta quindi dello spettacolo teatrale su Mozart “Sonata Irregolare per Anime Inquiete” in cui ha impersonato il grande compositore austriaco. Non si tratta, chiarisce immediatamente, di un’operazione filogico-documentaristica né tantomeno di un presuntuoso allestimento musicale, ma di una metafora impersonificata, in cui Mozart appare come una ‘dannata rockstar’ a tutto tondo; il suo stesso ingresso è molto esplosivo e simbolico, proprio perché il regista voleva aprire la messinscena con l’incontenibile, esuberante e blasfema ‘sete di Vita’ dell’artista, pur conservandone l’eleganza. L’opera che racconta il rapporto distorto con Salieri, si divide in due parti. Nella prima Mozart e Salieri hanno comunque, di fondo, un rapporto di amicizia seppur ‘violenta’; il primo sbeffeggia provocatoriamente il secondo, irridendolo per l’atteggiamento pedante verso la musica e noioso verso le opportunità avventurose della vita. Nella seconda, Mozart è ormai morto ed è presente nelle ciniche ed esasperate ossessioni di Salieri. Lo spettacolo, rappresentato a Napoli nella chiesa della Pietà dei Turchini è stata poi portato ad ‘un Corto per il Teatro’ presso il Teatro Millelire di Roma, dove Raffaele è stato premiato come miglior interprete.
“Ho accettato di lavorare in questo spettacolo perché è, secondo me, un’efficace metafora dell’invidia con l’ambizioso obiettivo di condurre le persone a impegnarsi nel dedicare la propria esistenza all’apprendimento e alla cooperazione, proprio perché snervarsi tutto il giorno a rimuginare e a studiare come ostacolare il successo degli altri ci porta soltanto a sciupare pure quel poco che abbiamo. Due geni che pur potendo essere tranquillamente felici, anche perché molto fortunati, si autodistruggono disperandosi l’uno per il talento del primo, l’altro per i soldi del secondo, l’uno annientato dalla inevitabile sifilide, l’altro vittima di pazzia e solitudine perché incapace di gestire la propria vana fame di gloria. Vorrei una comunità in cui si favoriscano i successi dell’altro e in cui si competa con buon senso, tutto qui. Nonostante la mole di infinita di pagine sulla catarsi, mi piace pensarla come una vaccinazione in cui invece del ticket paghi il biglietto, grazie alla quale esperisci, ti fai un po’ male ma poi sei più resistente al ‘rischio’. Ho costruito il personaggio seguendo le direttive del regista e cercando di renderlo verosimile, più che arrovellarmi sui documenti storici. Il lavoro di sostituzione è stato quanto mai obbligato, non possedendo io le competenze musicali, né la produzione una forza economica per intraprendere un percorso intensivo e conscio che neanche una vita intera sarebbe stata sufficiente a colmare il gap con il Genio. Il risultato pare abbia soddisfatto chi era presente e quindi la direzione sembra essere stata azzeccata. La prossima replica a febbraio presso il Teatro di sotto di Napoli”.
Passiamo quindi a parlare del personaggio che interpreta nel real drama Un Posto al Sole. Dato che il lavoro è sporadico, non esiste il copione ‘finito’ del personaggio, man mano vengono aggiunte scene e quindi risvolti inaspettati della caratterizzazione, ci confessa che solo da pochi mesi si è fatto un’idea più chiara dei confini entro cui esiste Ugo Alvini De Carolis.
Gli chiediamo quanto ci sia di Ugo in lui e in cosa differisca. L’aspetto interessante per Ugo, dice, è che richiede di rievocare con tenerezza alcuni frammenti autobiografici non propriamente eroici. Entra nel dettaglio e ci spiega che esistono, secondo lui, due piani, uno più teorico, costituito da stereotipi in cui inevitabilmente Ugo deve essere collocato e poi l’interpretazione personale dell’attore.
“Potenzialmente abbiamo tutti i colori dentro, nessun escluso, credo sia un dato di fatto, basta amplificare quella giusta porzione di propria esperienza simbolica per il personaggio. In altri termini, con Ugo devo enfatizzare, ma non sempre, una forma mentis più vicina alla mia adolescenza che al mio presente. L’essere stati preda della non accettazione di se stessi, l’essere stati trattati con costante supponenza o derisione da qualche ‘compagno’ di scuola, l’aver subito un rifiuto potente dopo una cotta è successo ad ognuno di noi, almeno mezza volta, così come ci sono stati esperienze opposte, ovvero generanti un’autostima alle stelle. Bisogna aggiungere a tutto questo la discreta goffaggine che caratterizza il personaggio Ugo più esteriormente, da incarnare anche cercando di cogliere il ritmo di un dialogo, al fine, perché no, di strappare un sorriso. L’osservazione della realtà circostante, poi, facilita molto il compito. La realtà è fatta più di persone ‘ughesche’, ‘normali’ nel senso di non particolarmente curate o impeccabili nell’aspetto o nell’intraprendenza, che quindi non catalizzano l’attenzione per il proprio splendore se non in un secondo momento, nella migliore delle ipotesi. Ugo è una personaggio, secondo me, tra i più vicini al suo ‘spettatore medio’”.
Ugo è un ragazzo intelligente e brillante laureatosi con il massimo dei voti in giurisprudenza ma è anche un po’ imbranato con il gentil sesso. “Il problema” di Ugo è che sta vivendo con modesto ritardo tante dinamiche che solitamente si vivono in adolescenza, senza la ‘protezione’ di una campana di vetro”.
Facciamo quindi riferimento alle ultime bellissime scene in cui ha recitato nella social soap.
Il personaggio che si è ritrovato soltanto ora coinvolto in un’emozione così forte come l’amore e non l’ha saputa gestire, cede alla richiesta di Manuela di fingere la loro relazione solo per far ingelosire Niko.
“Io e Ugo differiamo nelle scelte, io non avrei mai studiato legge, soprattutto non mi sarei quasi sicuramente potuto innamorare di una ragazza come Manuela o cedere al suo compromesso o diventare amico di Genny, se non appunto in adolescenza. In comune abbiamo l’educazione, a tratti una simile empatia anche se il ‘teatro’, fatto in un certo modo, è sempre terapeutico nell’accezione di suggeritore di ‘cambiamenti’, comunque, positivi. Quando provi un personaggio diverso da te, sperimenti dei ritmi, degli atteggiamenti e fai delle inferenze, spesso emotive, che finisci con l’automatizzare perché ti permettono sostanzialmente di rispondere meglio all’ambiente: trovare magari un’ironia nuova, diversa che può aiutare, che era tua ma che hai scoperto col tempo e giocando. Non so, quindi, di preciso quanto di Raffaele sia in Ugo ora o quanto invece io abbia generalizzato alcuni aspetti nati e sviluppati a partire da semplici dialoghi scritti; alla fine è sempre un miscuglio, ti alleni a provare delle cose che magari nella vita non ti permetteresti e ti accorgi, guardandoti indietro, di essere quello che sei anche grazie alla fantasia di un autore. In questo senso il teatro, permette all’attore-persona di crescere, di avere una maggiore consapevolezza di se stesso e delle proprie potenzialità”.
Lo ringraziamo per il tempo che ci ha dedicato e ci salutiamo con un abbraccio con la promessa di non perderci di vista. Ci siamo piaciuti molto, sarebbe un peccato non coltivare il rapporto.
Autore Lorenza Iuliano
Lorenza Iuliano, vicedirettore ExPartibus, giornalista pubblicista, linguista, politologa, web master, esperta di comunicazione e SEO.