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‘Che fare quando il mondo è in fiamme?’, di Roberto Minervini

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'What you gonna do when the world's on fire?'


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Il concetto di razza nell’America del terzo millennio

Dopo ‘Stop the Pounding Hear’t e ‘Louisiana’ il regista italiano Roberto Minervini continua a suo modo il racconto di un’America sconosciuta ai più e troppo poco narrata dalla Settima Arte. ‘What you gonna do when the world’s on fire?‘, letteralmente ‘Che fare quando il mondo è in fiamme?‘, è una amara quanto realistica e cruda riflessione sul concetto di razza negli Stati Uniti del terzo millennio.

La narrazione parte dall’estate 2017, quando una serie di brutali uccisioni di giovani afroamericani per mano della polizia scuote gli Stati Uniti. Una comunità nera del Sud americano affronta gli effetti persistenti del passato cercando di sopravvivere in un paese che non è dalla parte della sua gente. Intanto, le Black Panther organizzano una manifestazione di protesta contro la brutalità delle forze dell’ordine.

I protagonisti del racconto di Roberto Minervini vivono esistenze differenti, segnate dal razzismo purtroppo ancora esistente in USA; ed ognuno di loro reagisce a proprio modo al mondo che lo circonda e per questo è fondamentale descriverli singolarmente.

I protagonisti

Judy

Judy è una donna dalla personalità prorompente, nata in una famiglia di musicisti a Tremé, il più antico quartiere nero di New Orleans e di tutta l’America, oltre che la culla del jazz. Nonostante le difficoltà incontrate in passato, qualche anno fa si è rimessa in carreggiata, rilevando lo storico bar “Ooh Poo Pah Doo”: un punto di riferimento del quartiere, dove incontrarsi per chiacchierare, bere, suonare, ma anche discutere della condizione dei neri negli Stati Uniti.

Nel 2017, però, Judy ha perso il bar a causa della spietata gentrification,lo stravolgimento urbanistico e socio – culturale, di Tremé, che ha fatto impennare i canoni d’affitto e il costo delle case, costringendo gli abitanti ad abbandonare l’unico quartiere e l’unica comunità che avessero mai conosciuto. Da allora è di nuovo in cerca di un modo per tirare avanti.

Come dice lei stessa:

una donna forte ha bisogno di una mente forte, perché deve affrontare problemi forti.

Ronaldo e Titus

Il regista ha incontrato Ronaldo e Titus mentre filmava un gruppo di ragazzini del quartiere. Ronaldo è un quattordicenne dallo sguardo risoluto, una bellezza severa e una maturità da adulto nascosta dietro la sua innocenza infantile. Da principio la sua sicurezza impediva un approccio utile alla narrazione documentaristica. Ma con il passare del tempo Ronaldo ha abbassato la guardia e si è aperto accogliendo Minervini nel suo mondo. È stato così che l’italiano ha conosciuto sua madre Ashley e suo fratello Titus, di nove anni. Ashley, una giovane donna single, li ha cresciuti cercando di tenerli lontani dalla strada e dai guai.

Ronaldo ha una visione precisa dello spartiacque razziale ed esprime, con grande chiarezza e senza esitazioni, le sue opinioni sulla necessità di salvaguardare il retaggio dei neri americani; è impressionante ascoltare un ragazzino parlare dell’importanza del movimento per i diritti civili del popolo nero.

Dice Ronaldo a suo fratello Titus:

Senza tutti quelli che hanno lottato per noi, saremmo ancora schiavi.

Questi due ragazzini hanno la saggezza di chi ha vissuto già diverse vite.

Chief Kevin e Gli indiani del Mardi Gras

La tradizione dei gruppi indiani del Mardi Gras ebbe inizio a metà dell’Ottocento, quando gli africani americani non erano autorizzati a partecipare alle parate solenni che avevano luogo nelle città. Gli schiavi sottrattisi al traffico transatlantico dei negrieri furono adottati dai nativi americani locali, protetti e accolti nelle loro comunità. Capitava spesso che, sposando donne native americane, questi schiavi liberati si identificassero profondamente con la lotta dei nativi contro l’oppressione anglosassone e combattessero al loro fianco.

Nella cultura dell’Africa Occidentale come in quella dei nativi americani l’uso delle maschere, dei copricapo, delle piume e delle perline costituiva una pratica corrente e, quando queste culture si sono mescolate, nella tradizione del Mardi Gras indiano è andata sviluppandosi una nuova cultura del travestimento. Benché gli indiani del Mardi Gras partecipino da oltre un secolo alle parate con costumi elaboratissimi, danze e canzoni, le loro sfilate sono, forse, le meno conosciute della tradizione del Mardi Gras.

Gli indiani lavorano tutto l’anno sui loro costumi e sui loro “completi”, dedicando migliaia di ore e di dollari a ogni capo, cucendo meticolosamente a mano e arricchendo di perline ogni completo per sei o sette ore al giorno durante tutto l’anno. Ogni completo racconta una storia, è il risultato di uno sforzo straordinario e presenta immagini stupefacenti. Ogni costume viene indossato una sola volta e poi dismesso.

Le difficoltà, sia emotive che finanziarie, legate alla preparazione del Mardi Gras sono enormi. Ma per ognuno dei partecipanti essere un indiano è un atto di militanza politica: è una battaglia per riguadagnare, a persone senza diritti, una libertà d’espressione persa tanto tempo fa.

A New Orleans ci sono più di cinquanta tribù indiane, una delle quali è quella delle Frecce Ardenti, a cui il regista è stato presentato da Judy nel suo bar. Il Grande Capo delle Frecce Ardenti, Chief Kevin, è il leader di questa tribù ed è una figura di rilievo nella comunità indiana. Quando la tribù si riunisce nella sua performance un ruolo cruciale è svolto dalla musica, che consiste in un canto di botta e risposta accompagnato da percussioni. La musica degli indiani del Mardi Gras contiene un legame diretto fra la loro tradizione e quella degli schiavi africani.

Attraverso i testi dei loro canti, gli indiani rivendicano il diritto all’esistenza, ‘Eccoci‘, e riconoscono la sovranità della natura sugli esseri umani, ‘L’acqua scaturisce dall’acqua‘. Gli indiani escono nella notte per dare battaglia ad altre tribù, con l’obiettivo di rivendicare il proprio territorio e di far sentire la propria voce.

Le Black Panther

Le Black Panther sono un gruppo rivoluzionario che non ha certo bisogno di presentazione e che dalla sua formazione nel 1966 ha svolto un ruolo fondamentale nel movimento per i diritti civili. Tuttavia, mezzo secolo dopo, gli africani americani continuano ad essere testimoni di un apparato statale che perpetua una cultura della paura e dell’aggressione, con frequenti e ingiustificate dimostrazioni di violenza e oppressione razziale.

L’ipersegregazione degli africani americani è stata – ed è tuttora – un fattore che ha alimentato con forza la mobilitazione politica dei neri, mirata a migliorare le loro condizioni sociali. Questa mobilitazione politica è la ragione per cui i movimenti rivoluzionari neri non hanno mai cessato di esistere, nonostante la loro inattività negli anni Ottanta. Oggi il Partito, detto “Nuovo Partito delle Pantere Nere per l’Autodifesa”, conta membri in tutti gli Stati Uniti, in Europa e in Africa. Le sue roccaforti sono negli Stati del Sud, Louisiana e Texas, e in Sudafrica.

Per lungo tempo le Black Panther hanno rifiutato qualsiasi partecipazione a film e documentari, diffidando delle motivazioni propagandistiche e sensazionalistiche dei media. Tuttavia, dopo diversi incontri a porte chiuse con la troupe, l’attuale capo del partito, Krystal Muhammad, ha accettato di partecipare al film di Minervini. Da quel momento, il regista ha avuto la rara opportunità di assistere in diretta alle attività delle Pantere, dalla militanza politica ai servizi sociali per la comunità, all’opera di sensibilizzazione.

La telecamera è stata presente quando le Pantere hanno condotto un’inchiesta sul linciaggio e decapitazione di due giovani neri di Jackson, Mississipi, colpevoli di stare con donne bianche. C’era mentre marciavano per le strade di Baton Rouge, Louisiana, per protesta contro l’omicidio di Alton Sterling per mano della polizia. Roberto Minervini è riuscito a raggiungere un livello di reciproca comprensione che le Black Panther, a riprese concluse, hanno riconosciuto. E il film riflette perfettamente questo legame.

Nelle opere precedenti il regista italiano ha raccontato storie del Sud americano che si sono svolte in forme inaspettate sotto i suoi occhi, vive da molti anni negli USA.
Ha documentato aree dell’America di oggi dove i semi della rabbia reazionaria e anti-istituzionale, cui il paese deve la presidenza di Donald Trump, erano già stati piantati, anche se in pochi si erano presi la briga di accorgersene.

Con ‘Che fare quando il mondo è in fiamme?’ ha voluto scavare ancora più a fondo, alle radici della disuguaglianza sociale nell’America di oggi, concentrandosi sulla condizione degli afroamericani.

Lavorando con diverse comunità africane americane della Louisiana meridionale, Minervini e la sua troupe sono riusciti ad avere accesso a quartieri e comunità di New Orleans off-limits per i più.

Parlando del suo film il regista ha detto:

Mi sono presto reso conto che la maggior parte delle persone era stata segnata da due pagine drammatiche della storia recente – le conseguenze dell’uragano Katrina del 2005 e l’uccisione di Alton Sterling per mano della polizia nel 2016 -, riconducibili entrambe alla negligenza istituzionale, alle disparità sociali ed economiche, al forte razzismo endemico.
Mossa dalla collera e dalla paura, la gente cercava un’occasione per raccontare a voce alta le proprie storie.

La mia speranza è che ‘What You Gonna Do When the World’s on Fire?’, ‘Che fare quando il mondo è in fiamme?’, susciti un dibattito necessario sulle attuali condizioni dei neri americani che, oggi più che mai, assistono all’intensificarsi di politiche discriminatorie e crimini motivati dall’odio.

Autore Paco De Renzis

Nato tra le braccia di Partenope e cresciuto alle falde del Vesuvio, inguaribile cinefilo dalla tenera età… per "colpa" delle visioni premature de 'Il Padrino' e della 'Trilogia del Dollaro' di Sergio Leone. Indole e animo partenopeo lo rendono fiero conterraneo di Totò e Troisi come di Francesco Rosi e Paolo Sorrentino. L’unico film che ancora detiene il record per averlo fatto addormentare al cinema è 'Il Signore degli Anelli', ma Tolkien comparendogli in sogno lo ha già perdonato dicendogli che per sua fortuna lui è morto molto tempo prima di vederlo. Da quando scrive della Settima Arte ha come missione la diffusione dei film del passato e "spingere" la gente ad andare al Cinema stimolandone la curiosità attraverso i suoi articoli… ma visto i dati sconfortanti degli incassi negli ultimi anni pare il suo impegno stia avendo esattamente l’effetto contrario. Incurante della povertà dei botteghini, vagamente preoccupato per le sue tasche vuote, imperterrito continua la missione da giornalista pubblicista.